fonte: http://www.oltremedianews.com/7/post/2012/10/petrolini-contro-tutti-la-comicit-anarchica-che-pieg-il-fascismo.html
Leggenda vuole che quando in una proiezione privata Hitler vide Il grande dittatore di Chaplin, il Führer rise di se stesso. Ma questa è leggenda, ed in quanto tale è viziata da parte una parte di verità e da una parte di suggestione. A tutti piace pensare che Hitler potesse ridere della sua parodia. Invece la storia racconta, con tanto di documenti ufficiali, che un altro uomo ridicolizzò l’altra dittatura dell’asse, il regime fascista, ma il Duce stesso fu costretto,data la popolarità dell’attore, a fregiarlo della medaglia per il valore nelle arti. Quest’uomo era Ettore Petrolini.
Il punto di forza della comicità petroliniana era la pungente satira contro ogni forma di potere, politico, clericale, “intellettuale”. Le macchiette di Petrolini colpivano a 360 gradi tutta la società dell’epoca. Dal popolano – come nello sketch di Gigetto er bullo – all’artista bohémien impersonificato con il personaggio di Gastone, fino ad arrivare proprio alla gerarchia fascista, ed al Duce stesso, ritratto come Nerone. Il miglior giudizio, per comprendere chi fosse Petrolini, fu dato dal regista Alessandro Blasetti, che girò con l’attore un lungometraggio basato proprio sul personaggio di Nerone. Per Blasetti Petrolini era: “Prepotente, geniale e popolare” precisando, su quest’ultimo termine, “non in senso generico, intendo di razza, di sangue popolare”. Difatti Petrolini era figlio della suburra, e rivendicava sempre questo suo essere popolano dedicando al suo quartiere la bellissima e dimenticata canzone A via Cavour tra arance e mandarini e chiudendo ogni suo spettacolo, anche quelli all’estero, con l’inno alla romanità da lui scritto Una gita a li castelli
Molto prima del “teatro impegnato” degli anni 70 che voleva rendere il pubblico “spettatore attivo” e non meramente “passivo”, già Petrolini, durante la macchietta sul Nerone (alias Mussolini) era solito prima elogiare il pubblico per poi offenderlo, lanciando un atto di accusa verso a gente che in silenzio accettava la dittatura, senza rendersi conto che questa, se da un lato gli elargiva panem et circenses, dall’altro strozzava le libertà fondamentali. Petrolini era, come recita anche la targa sulla sua dimora, colui che raccoglieva l’eredità di Pasquino, il satirico misterioso, la voce anonima di Roma, che dall’epoca imperiale scriveva sui muri mirate satire contro qualsiasi forma di potere, dai Cesari ai Papi. Petrolini, vero comico anarchico, accettò questo “dovere”, in un periodo oscuro per la libertà di espressione, quello che lui stesso definiva “il periodo della musoneria italiana”. E lo fece senza mezzi termini. La comicità petroliniana era sprezzante, diretta, Un continuo e sistematico J’accuse, contro ogni forma di vizio e di virtù italica.
I suoi personaggi erano trasfigurazioni portate all’estremo, specchi nel quale, chiunque poteva riconoscersi, ma che mostravano la parte peggiore, la mostruosità delle piccolezze, delle debolezze e della cattiveria umana. I suoi personaggi erano malvagi, crudeli, ignavi, e tutto ciò rallegrava la gente come chi dinanzi alla paura scoppia in una risata isterica. L’esempio massimo è proprio il personaggio di Petrolini forse più celebre ma sicuramente più enigmatico: Fortunello. In un testo che sembrava un fluire di nonsense in realtà Petrolini smascherava le inquietudini e le depravazioni più profonde della psiche umana: feticismi, personalità bipolare, violenza, maschilismo, incoerenza, falsa moralità religiosa, il tutto condito da una divertente musichetta da avanspettacolo e da una maschera mostruosa che Petrolini indossava. Il pubblico, cantava, rideva e scoppiava in un applauso scrosciante all’ultima strofa del pezzo che diceva “Sono un uomo dei più cretini sono Petrolini”. In quello sberleffo finale verso se stesso Petrolini si rivendicava l’appartenenza a quelle folla che tanto dileggiava ma contemporaneamente, con prepotenze e genialità, si elevava a monito sopra di esso, vedendo, in quel pubblico che rideva di se stesso, senza rendersene conto, compiuta la sua più grande impresa.
Antonio Siniscalchi
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