sabato 21 maggio 2011

PRIMI PASSI USI - SANITA' - PARMA




Sanità


Ci basiamo su principi libertari, di classe, contro ogni accentramento burocratico e corporativistico; ci poniamo fuori dalle logiche confederali non più in grado di sostenere diritti  e dignità del Lavoratore


0,30% il costo della tessera su netto della busta paga
Assistenza Fiscale (CAAF) 10 euro per gli iscritti
Assistenza legale.

Per informazioni ed iscrizioni:
Fabio Giovanni Malandra
cell. 3475805720

venerdì 20 maggio 2011

DIRITTO A NON VOTARE: FACCIAMOLO E DIAMOGLI UN SENSO



Il primo atto rivoluzionario, non ha nulla a che fare con lo stereotipo di violenza, devastazione, individualismo, non si usano armi, non uccide ne ferisce, perché il primo atto rivoluzionario è il liberare l’anima, intesa come libertà di pensiero e di giudizio.
Quando Errico Malatesta sosteneva che la prima rivoluzione è quella che si opera ciascuno nel proprio cervello,sosteneva la pienezza della verita'. Il non voto della settimana scorsa è stato dato dalla maggioranza come risposta di protesta contro uno pseudo-stato di fatto e non di diritto, nel quale ormai ben pochi si riconoscono. Ma sicuramente in questa operazione non è stata fatta alcuna rivoluzione nè culturale nè di sistema.
Noi anarchici per cercare di cambiare l'ordine delle cose esistenti non possiamo puntare su questo. Noi non siamo andati a votare perché siamo extraparlamentari da sempre, nella ferrea convinzione che l'uomo, grazie all'educazione libertaria, del significato profondo del concetto di libertà ed alla consapevolezza che nessun simile sia in grado di governarne un altro. Per questo non abbia bisogno di eleggere nessuno nè per rappresentarlo in una sede governativa, nè per dettare ad altri uomini leggi arbitrariamente ideate e promulgate.
Educazione e consapevolezza: piloni portanti dell'anarchia. educazione in culla e perenne,che il bambino riceve da subito al libertarismo, al rispetto delle idee dell'altro, alla tolleranza, alla fratellanza, al dissenso verso qualsiasi forma di governo che non sia quella dettata dal proprio io, all'onesta' intellettuale, all'abrogazione di qualsiasi forma di arrivismo e di illecito arricchimento da parte di stato, banche, istituti di credito, organi finanziari, ma convinti che ogni essere vivente è una risorsa preziosa per il bene della collettività e che il benessere di uno è uguale a quello di tutti gli altri, siamo convinti della giustezza del mutuo soccorso nei confronti dei membri della comunita'. La consapevolezza di tutto questo rende l'idea dell'anarchico tendende ad una società in cui vi possa essere un ordine delle cose totalmente diverso da quello attuale, non un'utopistica chimera.
Alla luce del momento attuale il nostro ideale è sempre piu' l'unica,vera alternativa ad un sistema sociale in disfacimento. L'ideale berlusconiano di liberalismo ha dimostrato che il ricco continua ad arricchire,ed il povero ad impoverire.Premiando il sistema bancario e non adeguando il costo della vita ad un euro in vorticosa salita,la working class è diventata succube di quest'ultimo,impegnandosi con mutui e prestiti,che con i loro tassi e clausole capestro,si trasformano in poco tempo in veri e propri usurai autorizzati dallo stato. Noi lottiamo da sempre contro questo sistema di lucro irresponsabilmente promulgato e gestito grazie all'acquiescienza di un governo dichiaratamente contrario all'interesse del popolo. Bakunin, grande antesignano dell'anarchia, progettava una distruzione del sistema vigente per poter operare una ricostruzione in linea con l'interesse del popolo. Negli anni '70-80 vi fu violenza nelle piazze , molotov alla mano, e non abbiamo conquistato niente. Noi di Casa Anarchica siamo fieramente non- violenti. Anarchici nel profondo del nostro io, ma rispettosi del disegno malatestiano della rivoluzione mentale.
Continueremo ad appoggiare il nostro credo, e cioè che il benessere dei pochi non puo' prevaricare quello dei molti.
Per queste motivazioni invitiamo ad esercitare il diritto di non votare dando un senso profondo e di cambiamento nella libertà di non mentire a voi stessi.

Casa Anarchica - Parma

martedì 17 maggio 2011

Antonio Cieri




Antonio Cieri (Vasto, 11 novembre 1898 - Huesca, Spagna, 7 (o 8) aprile 1937) è stato anarchico e un combattente-comandante antifascista degli Arditi del Popolo e delle Brigate Internazionali nella rivoluzione spagnola.
La vita
Antonio Cieri
Antonio Cieri nacque a Vasto (Abruzzo) l'11 novembre 1898 e si avvicinò giovanissimo alle idee libertarie. Durante la prima guerra mondiale ebbe il grado di ufficiale e fu più volte decorato.
Dirigente del movimento anarchico di Ancona [1], in cui era impiegato presso le Ferrovie dello Stato come disegnatore tecnico (talvolta gli viene attribuito, a torto, il titolo di architetto), nel 1921, a causa della sua attività politica, fu trasferito a Parma. Qui, nell'agosto 1922 insieme a Guido Picelli - che dirigeva l’intera formazione - fu comandante degli Arditi del Popolo a difesa del Naviglio, rione popolare di Parma, durante gli assalti degli squadristi fascisti di Italo Balbo.
Andò in esilio nel 1923 quando fu licenziato dalle Ferrovie. A Parigi nel 1925 riprese la sua attività di anarchico militante collaborando alla pubblicazione del numero unico di <<Polemiche Nostre>> (Parigi, 22 agosto 1925), fondando, insieme a Camillo Berneri, il periodico <<Umanità Nova>> (da non confondere con l'allora quotidiano dell'Unione Anarchica Italiana <<Umanità Nova>>), <<La Protesta>> e collaborando ad un numero di <<La Vecchia Umanita Nova>> (15 aprile 1933).
L'1-2 novembre 1935 partecipò al congresso italiano di Sartrouville, dove venne fondato il Comitato Anarchico d’Azione Rivoluzionaria.
Nel 1936 fu uno dei comandanti delle Brigate Internazionali nella rivoluzione spagnola; in particolare fu a capo della squadra dei bomberos, da lui appositamente addestrata per l’assalto. Nell’aprile 1937 (il 7 aprile o l'8) cadde in combattimento durante l’assalto per la presa di Huesca, poi conquistata dalle formazioni antifasciste. I suoi figli furono allevati dalla moglie di Camillo Berneri.

Cieri durante le barricate di Parma (1922)

 

Commemorazione di Antonio Cieri, a cura di Massimo Ortalli
Riportiamo uno stralcio di Oltretorrente, di Pino Cacucci:
Su un tavolo d’osteria Antonio Cieri e Guido Picelli studiano le mappe della città e le linee difensive contro gli attacchi fascisti:
<<Abbiamo un punto debole: il Naviglio>>, dice Picelli. <<L’Oltretorrente è più facile da difendere, ci sono i ponti da superare, e la struttura stessa della città vecchia ci è d’aiuto. Ma al Naviglio, sarà dura. Lì non abbiamo il fiume e gli orti ad aiutarci, mi preoccupa soprattutto viale Mentana: qui possono attaccare in forze, hanno molto spazio a disposizione. E poi, è vulnerabile per la vicinanza della stazione ferroviaria e dello scalo merci, senza contare la stazione dei tram a vapore...>>.
Picelli e Cieri si guardano negli occhi.
<<Te la senti?>> chiede Picelli.
Cieri non ha un attimo di esitazione.
<<Puoi giurarci. Al Naviglio, non si passa>>.
Picelli gli stringe un braccio, poi si mette a impartire ordini agli Arditi:
<<Compagni! Formate squadre di otto o dieci uomini, come abbiamo previsto nelle esercitazioni! Antonio: quante squadre pensi che ti servano, per resistere al primo impatto?>>.
Cieri ci pensa un istante, scambia uno sguardo con Primo Parisini e con Alberto Puzzarini che gli sono accanto, fucile in spalla e bombe a mano appese al petto, e infine risponde: <<Me ne bastano sei. L’essenziale sarà mantenere i collegamenti. Dobbiamo impedire che ci taglino fuori, tu tieni il grosso delle nostre forze qui, e noi ce la faremo se voi riuscirete a tenervi in contatto>>.
<<Bene. Allora... quattro squadre le mandiamo nel Saffi, e ce ne restano a occhio e croce una ventina per la difesa dell’Oltretorrente. Ora... bisogna organizzare i rifornimenti e la logistica per una resistenza di lunga durata!>>
Una ragazza si affaccia alla finestra brandendo un’accetta, ed esclama alla gente sottostante: <<Che vengano pure! Io son pronta!".
Negli androni delle case, gli insorti preparano bombe rudimentali e bottiglie di petrolio munite di stoppaccio. I negozianti mettono a disposizione cibarie e bevande per i difensori delle barricate, le donne dispongono un servizio di approvvigionamento. Sui campanili, i ragazzi si appostano di vedetta, e così anche sugli abbaini dei tetti. Picelli è con un falegname, che ha intagliato dei rozzi fucili di legno.
<<In mancanza d’altro, procurate altri bastoni, passateci sopra il nerofumo, e impugnateli come se fossero fucili veri. Devono credere che tutta Parma trabocca di armi!"
Arriva un gruppo di uomini al seguito di un giovanotto dall’aria bonaria ma risoluta: è il consigliere comunale Ulisse Corazza, del Partito Popolare, che ha un fucile da caccia in spalla e si guarda intorno con aria preoccupata finché, individuato Picelli, fa un cenno ai suoi e quindi gli va incontro tendendo la mano. Picelli, vedendolo, sembra stupito e raggiante al tempo stesso: <<Consigliere Corazza! Che piacere vedervi qui!>>.
I due si stringono la mano.
<<Un conto sono le direttive di partito>> dice Corazza, <<e un conto è stare a guardare mentre quegli sciacalli invadono la nostra città. Siamo con voi, Picelli!>>
I due si abbracciano. I militanti del Partito Popolare si uniscono agli Arditi del Popolo e agli abitanti insorti, piazzandosi dove viene loro ordinato dai capisquadra.
Nel pomeriggio vengono sparati i primi colpi: alle revolverate di alcuni fascisti che avanzano in ordine sparso, si risponde con sporadiche fucilate che ottengono il risultato di tenerli a debita distanza. Il commissario di pubblica sicurezza Di Seri, che con un gruppo di agenti interviene in viale Mentana', cerca di far arretrare i fascisti appostati dietro gli alberi, ma quando pretende di disarmarne alcuni, viene colpito da una bastonata alla testa. I poliziotti si ritirano, portando via il commissario semistordito.
Mentre i combattenti di Cieri, Parisini e Puzzarini, in Borgo del Naviglio, raccolgono materiali per tirar su barricate, arriva un prete in bicicletta, con la tonaca che svolazza al vento. Scende al volo, getta la bicicletta contro un muro nei pressi della chiesa e si dirige verso Antonio Cieri.
<<Oh Cristo...>>, si lascia sfuggire l’anarchico.
Il sacerdote lo redarguisce: <<Non nominare il nome di Dio invano, figliolo!>>.
<<Invano? Senti, prete: guarda che Gesù Cristo aveva molto più da spartire con la gente come noi che con i tuoi papi e cardinali>>.
<<Ohé, ross, ti pare questa la giornata adatta per le disquisizioni teologiche?" sbotta il sacerdote.
<<Forza, vieni a darmi una mano, muoviti!>>.
Cieri, spiazzato, lo segue in chiesa. Una volta entrati, il prete si inginocchia e si fa il segno della croce; l’anarchico non mette piede in chiesa da quando era bambino e quindi resta imbambolato, gli occhi incollati a un grande crocefisso che si leva, fra luce e ombra, in una cappella laterale. Il prete afferra una panca da un lato, e gli dice: <<Allora, mi aiuti o no? Che aspetti?>>.
Cieri lo aiuta a portare fuori la prima panca. Mentre la sistemano sulla barricata in costruzione, Cieri ordina agli altri Arditi del Popolo: <<Portatele tutte qui, due alla volta, senza intralciarvi e a turno per non lasciare sguarnita la difesa. Dieci uomini restino appostati, e senza perdere di vista il nemico>>. In breve, decine di panche si accatastano sulla barricata. Dal portone della chiesa spuntano quattro Arditi bagnati di sudore, che trascinano sbuffando e imprecando il confessionale.
<<Eh, no! Quello no!>>, fa il prete.
<<E perché quello no?>>, gli domanda Cieri.
Il prete alza il dito indice con espressione severa: <<Perché nei prossimi giorni mi servirà là dentro>>. Getta un’occhiata oltre la barricata, e aggiunge: <<Saranno anche fascisti e se lo meritano, ma c’è pur sempre il quinto, non uccidere. E comunque dovrete confessarvi. Tutti!>>.
Oh, come no... Puoi contarci senz’altro>> fa Cieri, con aria sorniona.

La targa in suo ricordo a Parma

Il 22 marzo 2006 è stata collocata, a Parma, una targa in ricordo del suo contributo alla difese di Parma dagli attacchi fascisti.
L'atto è stato presentato da Massimo Franzoni, che ha spiegato la importanza dell'iniziativa tesa al ricordo della memoria storica dei libertari. Massimo Ortalli è intervenuto per ricordare le gesta di Antonio Cieri, dei libertari e degli antifascisti di Parma. Alla commemorazione era presente anche una delegazione di Vasto (paese natale di Cieri).

Anarchia, la risposta alle elezioni amministrative



La risposta di Casa Anarchica all'articolo del Compagno Direttore Andrea Marsiletti sulle pagine di "Alice non lo sa" (vedi articolo http://www.parmadaily.it/Notizie/Dettaglio.aspx?pda=MAS&pdi=44446)


Carissimo Compagno Direttore Andrea Marsiletti, la domanda fondamentale non è chi ha vinto, ma cosa cambierà. A nostro avviso non cambierà niente finchè esiste la competizione per il potere: perde la "democrazia" poichè oscurata dall'interesse privato. Vince la solita ciurma, il braccio politico delle banche, assicurazioni, confindustria. Perde il cittadino, il territorio, il lavoratore. Questo non cambierà mai, caro Direttore, al di la se a Milano vinca la sinistra o sia la fine dell'era di Berlusconi, che a Torino il nuovo non paga avendo eletto una vecchia volpe come Fassino, che Salso Maggiore potrebbe essere conquistata dalla destra xenofoba, omofobica del carroccio, che lo status quo regni nel territorio parmigiano con la rielezione delle uscenti amminastrazioni, o che il voto di protesta abbia premiato l'individualismo destroide a S. Secondo.
Si è evitato il discorso del movimento comunista, oramai nel limbo in attesa del fatal sospiro, con un sussulto pre mortem del PdCI di Fellini nell'enclave della mercificazione della donna e del suo corpo.
Noi anarchici di Casa Anarchica vogliamo sottolineare, invece, il successo dell'astensione al voto che, a parte S. Secondo (20%), in tutto il territorio parmense si attesta circa al 30%, in linea con il dato nazionale. Notevole è la nostra soddisfazione; un dato, quello dell'astensione, che denota un allontanamento da una politica senza passione, se non quella sessuale e dell'effimero, che nulla ha più da dire se non tirar profitti di potere, schiavizzando il resto della società.
Siamo coscenti che la maggior parte dei non votanti non siano anarchici, probabilmente solo guidati dalla rabbia, disgusto e abbiano protestato contro un sistema politico malato: siamo convinti, però, che il movimento libertario possa e debba avere la possibilità di far breccia nelle persone, proponendoci come alternativa positiva e propositiva, convintamente al di fuori dal sistema elettorale e politico che attualmente condiziona in negativo il nostro vivere.
Facciamo appello a tutti coloro che abbiano l'intenzione di conoscerci e conoscere la via libertaria, l'anarchismo non violento fatto sicuramente di duro lavoro, ma soprattutto una scelta che non presuppone il negarsi qualcosa, ma creare le condizioni per una nuova società. Ci mettiamo a disposizione di tutti coloro interessati per incontri, senza pregiudizio di sorta, e cominciare a camminare insieme. Anche questa è rivoluzione, senza bombe ne armi, ma fatta da donne e uomini convintamente uniti da un'ideale vero, dove tutti sono protagonisti e nessuno è padrone.


fabio malandra Casa Anarchica - Parma

lunedì 16 maggio 2011

GIUSEPPE PINELLI



fonte: http://www.centrostudilibertari.it/index.php/pinelli.html



A Giuseppe (Pino) Pinelli, anarchico milanese, nato il 21 ottobre del 1928 e morto il 15 dicembre del 1969 precipitando dal quarto piano della Questura di Milano durante un interrogatorio, è intestato il nostro archivio. La sua vita in breve. Terminate le scuole elementari Pino Pinelli dovette andare a lavorare, prima come garzone poi come magazziniere. Tuttavia la conclusione degli «studi ufficiali» non lo allontanò dai libri e dagli interessi culturali: lesse centinaia di volumi divenendo appassionato autodidatta. È del periodo della Resistenza l'inizio della sua militanza politica: fu giovane staffetta partigiana nella formazione socialista «Franco» (delle Brigate «Matteotti»). Si avvicinò all'anarchismo nel 1952, frequentando una scuola di esperanto. Fu in quell'occasione che Giuseppe incontrò Licia Rognini, che dopo pochi anni sposò. Pino e Licia ebbero due bambine di nome Silvia e Claudia. Nel 1954 Pino vinse un concorso ed entrò nelle ferrovie come manovratore. Nei primi anni Sessanta alcuni giovani crearono il gruppo Gioventù libertaria; Pino, nonostante avesse una quindicina di anni in più dei fondatori del gruppo, condivise l'esperienza con grande entusiasmo rappresentando un punto di contatto fra i nuovi arrivati all'anarchismo e i vecchi militanti. Nel 1965 è fra i promotori del Circolo Sacco e Vanzetti di viale Murillo, circolo che, nel 1968, si trasferì in piazzale Lugano prendendo il nome di Circolo anarchico Ponte della Ghisolfa. In questa atmosfera ricca di stimoli e slanci Pinelli si impegnò con grande generosità e capacità promuovendo diverse iniziative (tra cui la Croce nera anarchica e la sezione Bovisa dell'Unione sindacale italiana – USI) e creando occasioni di confronto fra lavoratori e studenti. Poi giunse il dicembre del 1969, con la «strage di Stato» di piazza Fontana, la montatura contro Valpreda e altri anarchici, il fermo «per accertamenti» di Pinelli, la sua uccisione. La immediata e forte campagna di contro-informazione, che coinvolse oltre agli anarchici anche parte della sinistra extra-parlamentare e parlamentare, fece sì che larghi settori dell'opinione pubblica non presero mai sul serio le versioni ufficiali (tra loro per altro contraddittorie) del «suicidio» (polizia) e del «malore attivo» (magistratura). La tragica morte di Pino diede luogo a vari libri e ispirò vari artisti, dal premio Nobel (1997) Dario Fo, con la sua opera teatrale Morte accidentale di un anarchico, al pittore Enrico Baj, con i suoi Funerali dell'anarchico Pinelli.


domenica 15 maggio 2011

FRASI ERRICO MALATESTA





Incominciando col gustare un po’ di libertà, si finisce per volerla tutta.
*
Se la democrazia potesse essere altro che un mezzo di ingannare il popolo, la borghesia, minacciata nei suoi interessi, si preparerebbe alla rivolta e si servirebbe di tutta la forza e di tutta l’influenza che le sono date dal possesso della ricchezza, per ricordare al governo la sua funzione di semplice gendarme al suo servizio.
*
L’Anarchia, al pari del socialismo, ha per base, per punto di partenza, per ambiente necessario, l’eguaglianza di condizioni; ha per faro la solidarietà; e per metodo la libertà.
*
Tutti gli anarchici, a qualsiasi tendenza appartengono, sono in certo modo degli individualisti. Ma la proposizione reciproca è ben lungi dall’essere vera: tutti gli individualisti non sono – e ce ne corre – degli anarchici.
*
Strettamente parlando noi [anarchici] non possiamo avere una politica estera, poiché noi stiamo e vogliamo stare fuori e contro l’attuale spartizione del mondo in Stati rivali. Per noi non vi sono stranieri.
*
Lo Stato è come la religione, vale se la gente ci crede.
*
Organo e funzione sono termini inseparabili. Levate ad un organo la sua funzione o l’organo muore o la funzione si ricostituisce. Mettete un esercito in un paese in cui non ci siano nè ragioni nè paure di guerra interna o esterna, ed esso provocherà la guerra, o, se non ci riesce, si disfarà. Una polizia dove non ci siano delitti da scoprire e delinquenti da arrestare, inventerà i delitti e delinquenti, o cesserà di esistere.
*
Ottenere il comunismo prima dell’anarchia, cioè, prima di avere completamente conquistato la libertà politica ed economica,significherebbe stabilire una tirannia cosi terribile, che la gente rimpiangerebbe il regime borghese, per poi tornare al sistema capitalista.
*
Il pericolo più grande che minaccia il movimento operaio è la tendenza dei leader a considerare la propaganda e l’organizzazione come un mestiere.
Frasi e Aforismi di Errico Malatesta

Errico Malatesta

Errico Malatesta (S.Maria Capua Vetere, Caserta, 14 dicembre 1853 - Roma, 22 luglio 1932) è stato il teorico e il rivoluzionario anarchico italiano più importante degli ultimi due secoli.

Biografia

Errico Malatesta
Nato il 14 dicembre 1853 a S.Maria Capua Vetere da una famiglia di ricchi proprietari terrieri. Il padre Federico, napoletano originario del Cerriglio, aveva lì una fiorente fabbrica per la concia del cuoio. La madre Lazzarina Rastoin era figlia di un ricco commerciante di pelli di origine marsigliese. Errico Malatesta compì gli studi in un collegio di padri scolopi, quindi si iscrisse all'Università di Napoli, dove studiò medicina per tre anni senza laurearsi.
In giovanissima età abbracciò gli ideali repubblicani di Giuseppe Mazzini. Il 25 marzo 1868 venne convocato dalla questura di Napoli a causa di una lettera di carattere sovversivo scritta a Vittorio Emanuele II; il 19 marzo 1870, non ancora diciottenne, subì il primo di quella che sarebbe stata una lunga serie di arresti, a seguito di una sommossa organizzata da un circolo studentesco repubblicano dell'Università di Napoli.
Nel 1871, dopo la Comune di Parigi, abbandonò le idee repubblicane per abbracciare l'ideale anarchico; nello stesso anno si iscrisse alla federazione napoletana dell'Associazione internazionale dei lavoratori.
Nel 1872 si recò in Svizzera per partecipare al Congresso di Saint-Imier; in quell'occasione divenne amico di Michail Bakunin.
Dopo il congresso iniziò un periodo di intensa attività sovversiva: nel 1873 fu arrestato a Bologna; nel 1874 partecipò con un piccolo gruppo ad un fallito tentativo di insurrezione a Bologna; venne arrestato poco dopo a Pesaro. Il processo conseguente si risolse con l'assoluzione di tutti gli imputati, risultando in una notevole popolarità per gli insorti e per Malatesta in particolare.
Il 19 ottobre 1875 Malatesta si iscrisse alla massoneria nel tentativo di diffondere l'ideale socialista tra gli iscritti; il suo rapporto con la massoneria fu piuttosto tormentato, e si interruppe definitivamente il 18 marzo 1876, quando, indignato dalla decisione della sua "loggia" di organizzare un ricevimento d'onore per Giovanni Nicotera, eletto poco prima ministro dell'interno, decise di abbandonarla definitivamente.
Il 5 aprile 1877, formando insieme a Carlo Cafiero ed altri ventiquattro esponenti dell'anarchismo italiano la Banda del Matese, partì dalle pendici del Massiccio del Matese con l'obbiettivo di dare il via ad un'insurrezione. Dopo alcuni giorni di resistenza, visto l'imponente spiegamento di forze da parte del Regno d'Italia, gli insorti furono arrestati e processati.

 Partenza dall'Italia

Nel 1878 iniziò per Malatesta un intenso periodo di peregrinazioni: dopo un breve periodo in Egitto, si recò in Siria ed in Romania prima di fermarsi a Ginevra, dove conobbe Élisée Reclus e Pëtr Kropotkin, del quale divenne grande amico e con cui pubblicò «Le Révolte»; si spostò successivamente in Belgio, quindi nel 1881 raggiunse Londra, dove organizzò insieme a Kropotkin il Congresso Internazionale Socialista Rivoluzionario.
Nel 1882, venuto a conoscenza della rivolta di Arabi Pasha, tornò in Egitto nel tentativo di trasformare il moto nazionalista in rivolta sociale. Venne arrestato dai soldati inglesi l'anno successivo, quindi tornò in Italia clandestinamente, sbarcando a Livorno. Poco tempo dopo venne arrestato per cospirazione insieme all'amico Francesco Saverio Merlino ed altri rivoluzionari. Approfittando della libertà provvisoria si recò a Firenze, dove iniziò la pubblicazione de «La Questione sociale» (primo numero il 22 dicembre 1883) in cui trovò per la prima volta pubblicazione Fra contadini, uno dei suoi trattati più noti.
Nonostante avesse subito una condanna a tre anni di reclusione, nel 1884 si recò a Napoli per prestare soccorso alla popolazione colpita da un'epidemia di colera, quindi partì per l'America Latina per sfuggire alla cattura.

 Esule in Argentina

Altra immagine di Malatesta
 
Si stabilì a Buenos Aires, dove entrò in contatto con il Circolo Comunista Anárquico e riprese la pubblicazione - in lingua italiana - de «La Questione sociale». Nel 1886 tentò l'esperienza, rivelatasi poi disastrosa, del cercatore d'oro in Patagonia; nel 1887 contribuì alla nascita del primo sindacato argentino, il "Sindacato dei fornai", del quale scrisse lo statuto.
Nel 1888 ricevette l'accusa - peraltro rilevatasi in seguito infondata - di falsificare monete; decise quindi di partire, e dopo un brevissimo soggiorno a Montevideo tornò in Europa nel 1889.

 Ritorno in Europa

Si stabilì in un primo momento a Nizza, dove pubblicò il quotidiano clandestino «L'avvenire». La polizia francese si mise presto sulle sue tracce, costringendolo a rifugiarsi di nuovo a Londra.
Tra il 1891 ed il 1892 tenne una serie di comizi in Spagna insieme all'amico Pedro Esteve, partecipando anche ad una rivolta popolare a Jerez de la Frontera. Ricercato dalla polizia, tornò ancora a Londra, dove nel 1896 assistette al Congresso Socialista Internazionale.
Nel 1897 viaggiò clandestinamente fino ad Ancona, dove contribuì alla fondazione de «L'agitazione». L'anno successivo, in occasione dello scoppio dei "Moti del pane" nella città, venne arrestato e condannato a sette mesi di reclusione. Non appena ebbe scontato la pena subì un'altra condanna a cinque anni di domicilio coatto da scontare ad Ustica e Lampedusa, dalla quale evase nel 1899 per recarsi in Tunisia. Nel 1900, dopo due brevi parentesi a New York e a Cuba, si stabilì a Londra, dove sarebbe rimasto per dodici anni con l'eccezione di un viaggio ad Amsterdam nel 1907 durante il quale partecipò al Congresso Anarchico Internazionale.

Il periodo di Londra

Durante il soggiorno nella capitale inglese, Malatesta si guadagnò da vivere come elettricista e meccanico; in questo periodo si registrò un certo indebolimento della sua attività sovversiva, a fronte di una continua attività propagandistica. Molto presto si guadagnò la stima dei lavoratori inglesi, che sollevarono imponenti manifestazioni di protesta nelle innumerevoli occasioni in cui Malatesta finì in guai giudiziari. In tal senso è emblematico l'episodio del 20 maggio 1912, quando la corte di Bow Street lo condannò a tre mesi di reclusione a seguito di una denuncia per diffamazione da parte della spia italiana Ennio Belelli. La condanna venne accompagnata da un decreto d'espulsione che dovette essere annullato in seguito alla manifestazione popolare del 12 giugno dello stesso anno.
Lasciò l'Inghilterra nel 1913 per tornare in Italia, dove iniziò la pubblicazione del settimanale «Volontà». Nel 1914 partecipò alla settimana rossa; ricercato di nuovo dalla polizia, fu costretto all'ennesimo ritorno nella capitale inglese.
Alla vigilia della prima guerra mondiale si separò dolorosamente dall'amico Kropotkin, dopo un aspro dibattito riguardo l'atteggiamento che gli anarchici avrebbero dovuto tenere a proposito de "L'Intesa" e degli interventisti, nel quale Malatesta sostenne gli ideali dell'antimilitarismo e dell'internazionalismo. Questo atteggiamento fu riscontrabile ancora in maniere evidente nel 1916, attraverso la sua aspra risposta al "Manifesto dei Sedici" pubblicata in aprile su «Freedom».  Ritorno in Italia
Nel 1919, dopo molti vani tentativi, Malatesta ottenne il passaporto dal console italiano a Londra, quindi si imbarcò per Taranto il 24 dicembre dello stesso anno. In Italia godette subito di un'enorme popolarità, di cui si avvantaggiò con un'intensa attività propagandistica e sovversiva che lo rese uno dei principali protagonisti del biennio rosso.

Prima pagina di «Umanità Nova» ( 9/12/1956), storico giornale fondato da Errico Malatesta

Nel 1920 diresse a Milano il quotidiano anarchico «Umanità Nova»; nello stesso anno fu arrestato e recluso nel carcere di San Vittore. Iniziò insieme ad altri detenuti (tra cui Armando Borghi e Corrado Quaglino) uno sciopero della fame che ne minò le condizioni fisiche riducendolo quasi in fin di vita; lo sciopero venne sospeso in seguito ad un attentato avvenuto il 23 marzo 1921 in un albergo situato vicino al teatro Diana da parte di alcuni anarchici della corrente individualista.

 Il fascismo e la fine dell'attività sovversiva

Lo stesso anno Malatesta e gli altri imputati (tra cui Nella Giacomelli) vennero liberati; continuò la direzione di «Umanità Nova» fino al 1922, anno in cui i fascisti presero il potere e chiusero il giornale, che sarebbe stato riaperto nel 1945 sotto forma di settimanale. In quello stesso anno Malatesta, sfuggendo al controllo fascista, si recò clandestinamente in Svizzera per assistere al cinquantenario del Congresso di Saint-Imier, quindi si trasferì definitivamente a Roma con la compagna Elena Melli e sua figlia Gemma.
Nei primi anni del governo fascista riuscì, seppur nella clandestinità, a proseguire la sua attività di propaganda; dal 1924 al 1926, nonostante il rigido controllo della censura, pubblicò il quindicinale clandestino «Pensiero e Volontà».
Negli anni successivi il regime fascista impose a Malatesta il continuo controllo a vista da parte di un gruppo di guardie, condannandolo in questo modo ad un sostanziale isolamento dal resto del mondo e dal movimento anarchico in particolare.
Trascorse gli ultimi anni della sua vita quasi completamente chiuso in casa con la sua famiglia, subendo un progressivo peggioramento delle sue condizioni di salute. Nel marzo del 1932 sopravvisse ad una grave broncopolmonite; morì il 22 luglio dello stesso anno, in seguito ad una grave crisi respiratoria.

 Il pensiero

Errico Malatesta tenta una sintesi della concezione anarchica, senza però imprigionarla in un sistema. A questo scopo distingue l'anarchia dall'anarchismo.[1] La prima è il fine, ha un valore meta-storico ed universale: rappresenta il voler essere, e come tale non è deducibile da alcuna situazione storica. L'anarchismo è la traduzione di questo fine nella concretezza di una situazione storica. La divisione corrisponde a quella tra giudizi di valore e giudizi di fatto.
I valori fondamentali dell'anarchialibertà, uguaglianza, solidarietà – sono espressioni a-razionali di una aspirazione universale, e come tali non si legano a nessuna dottrina. Malatesta rifiuta tanto il giusnaturalismo quanto il positivismo. Il primo, perché considera l'idea di una società naturale come il risultato della pigrizia di chi sogna che le aspirazioni umane si realizzino spontaneamente, senza lotta; il secondo, perché l'esaltazione della scienza porta ad un nuovo dogmatismo, come accade in Pëtr Kropotkin.
La volontà è l'elemento decisivo per la trasformazione sociale. La società libertaria dipende unicamente dalla volontà degli uomini. La storia sfugge ad ogni filosofia e ad ogni tentativo di previsione. Per questo non è possibile sapere quando i tempi sono maturi per la rivoluzione, ed occorre approfittare di tutte le occasioni. La rivoluzione non è un fatto economico e sociale, ma un atto di volontà. La rivoluzione deve coinvolgere le masse, ma le masse non diventeranno anarchiche prima che la rivoluzione sia iniziata; gli anarchici devono allora accostarsi alle masse e prenderle come sono, senza progetti pedagogici inevitabilmente autoritari, e adattando piuttosto l'ideologia al loro sentire. L'azione rivoluzionaria ha due momenti: la distruzione violenta degli ostacoli alla libertà, e la diffusione graduale della pratica della libertà, priva di ogni coercizione.
La violenza di per sé è nemica della libertà. Essa è una triste necessità dell'anarchismo, ma solo nella fase negativa della distruzione delle forme oppressive. Malatesta è contrario ad ogni terrore rivoluzionario, che conduce necessariamente alla dittatura, così come respinge l'idea comunista della dittatura del proletariato e giudica molto severamente i risultati della rivoluzione bolscevica, che ha fermato l'esperimento dei soviet ed ha instaurato uno Stato autoritario.
Per Malatesta non è possibile compiere la rivoluzione perseguendo interessi economici, poiché l'interesse è sempre conservatore: solo l'ideale è rivoluzionario. Di qui la supremazia del politico – che persegue l'ideale universale – sull'economico, che persegue sempre fini riformisti e conservatori. Per questo anche i sindacati sono considerati riformisti, mai realmente rivoluzionari (anche per il loro carattere inevitabilmente corporativo).
L'organizzazione sociale preferibile è quella comunistica, ma deve trattarsi di un comunismo non imposto, ma liberamente scelto e voluto. Il comunismo di Malatesta non è tanto una concezione economica, quanto un principio di giustizia sociale, una tensione meta-economica. I problemi economici vanno affrontati in modo empirico, scegliendo di volta in volta l'organizzazione economica in grado di adeguare gli ideali politici anarchici.
Poiché l'anarchia è fondata sull'etica (e su un'etica della convinzione, in termini weberiani), essa non può accettare la democrazia come male minore. Di qui la sottovalutazione del fascismo da parte di Malatesta. Il sistema democratico ricorre all'autorità della maggioranza, quello anarchico alla intesa volontaria (benché in certi casi sia inevitabile ricorrere al voto). La volontà della maggioranza non può pretendere il possesso della verità assoluta, poiché tale verità non esiste. Il principio di libertà impedisce di riconoscere una sola verità: ognuno ha la propria verità, ed anche la propria anarchia. In società, tuttavia, la libertà non può essere assoluta, ma deve essere limitata dal principio della solidarietà e dell'amore verso gli altri.

 Scritti

 1897

1899

1913

  • Per la libertà, in «Volontà», 27 settembre
  • Scienza e riforma sociale, in «Volontà», 27 dicembre

1920

] 1921

 1922

  • La funzione dei sindacati nella rivoluzione, in «Umanità Nova», 13 aprile
  • Ancora sulla libertà del lavoro, in «Umanità Nova», 16 aprile
  • Repubblicanesimo sociale e anarchismo, in «Umanità Nova», 27 aprile
  • La base morale dell'anarchismo, in «Umanità Nova», 16 settembre
  • Ancora sulla rivoluzione in pratica, in «Umanità Nova», 14 ottobre
  • Morale e violenza, in «Umanità Nova», 21 ottobre
  • Discorrendo di rivoluzione, in «Umanità Nova», 25 novembre

1924

 1925

1929

Altri scritti

venerdì 13 maggio 2011

HO UN SOGNO

APPELLO DI ANTONELLA CODIGONI DALLE PAGINE DI FACEBOOK



"CHI DI VOI VUOLE INCAMINARSI CON ME IN QUESTO CAMMINO ME LO DICA GRAZIE E SE SIETE AMMINISTRATORI DI GRUPPI E VOLETE INIZIARLA NEL VOSTRO GRUPPO MI VA BENISSIMO BASTA CHE SI PROVA A FARLO
UN ABBRACCIO ANTIRAZZISTA ANTO"

Ho un sogno. Che nel Paese venga isolato e sconfitto il clima di intolleranza verso i migranti che è stato in modo cosciente seminato nel Paese anche da irresponsabili forze di governo.
Noi abbiamo un secondo sogno: che ai migranti, a prescindere dal loro status, siano garantiti i diritti fondamentali, umani e civili, previsti dalla costituzione e dalle leggi internazionali, in particolare in relazione agli articoli 2, 3 e 8 della costituzione con riferimento anche alla convenzione 143 della UE che garantisce la promozione della parità di opportunità e di trattamento dei lavoratori migranti ratificata dal nostro paese nel 1981. Sappiamo che l’esclusione del diverso dai diritti è la premessa necessaria alla riduzione dei diritti di tutti come già drammaticamente avvenuto nella recente storia del nostro Paese.
Noi abbiamo un terzo sogno: che nel nostro Paese cessino le violazioni dei diritti umani per i lavoratori migranti sprovvisti di documenti e cessi la aggressiva e discriminatoria retorica usata da leader politici, in particolare della Lega Nord, che istigano alla xenofobia e al razzismo e che associano esplicitamente la criminalità ai Rom, ai credenti di fede musulmana e agli africani in quanto “diversi” dal punto di vista etno-genetico, creando un ambiente di intolleranza e ostilità pregiudiziale nell’opinione pubblica
Noi abbiamo un quarto sogno: che nel nostro paese cessino le gravi violazioni dei diritti umani verso i lavoratori migranti dell’Africa, dell’Est Europa e dell’Asia, cessi la abominevole pratica dei respingimenti e dell’omissione di soccorso, cessino maltrattamenti, salari infimi, orari eccessivi e cessino le situazioni di lavoro schiavistico in cui parte della paga è trattenuta dall’impresa per un posto in dormitori affollati senza acqua né elettricità o in cui i lavoratori sono costretti a vivere in bidonville fatiscenti e degne persino delle aree più desolate del terzo mondo.
Noi abbiamo un quinto sogno: che nel Nostro Paese venga applicata la legge punendo prese di posizione pubbliche razziste e xenofobe contro gli immigrati e vengano sanzionati come istigazione alla violenza discorsi pubblici e prese di posizione politiche di tipo discriminatorio ispirate dall’odio contro gli stranieri.
Noi abbiamo un sesto sogno: che i centri di “identificazione” cessino di essere dei lager e che non si ripetano maltrattamenti ingiustificati verso i Rom, specialmente quelli di origine romena, durante i raid per lo sgombero dei campi.
Noi abbiamo un settimo sogno: che il governo di questo paese compia atti concreti per migliorare nella pubblica opinione, la conoscenza e la consapevolezza della discriminazione, e per integrare concretamente e in modo duraturo i migranti e le loro famiglie come membri della società a tutti gli effetti.
Noi abbiamo un ottavo sogno: che in questo paese cessi la violenza della xenofobia, della omofobia e del razzismo perché il rischio è quello di una deriva violenta e incontrollabile le cui conseguenze lascerebbero ferite destinate a non sanarsi mai più precipitando l?Italia in una vergognosa condizione unica nei paesi del mondo ad economia avanzata, vanificando quanto di buono, con il coraggio, il sangue e il sudore e la qualità del loro lavoro, i nostri emigranti hanno fatto in tutto il mondo per il prestigio della nostra comunità nazionale.
Noi abbiamo un nono sogno: che l’Italia e gli italiani riescano a far dimenticare alla comunità internazionale la vergogna delle atrocità commesse nelle colonie durante il ventennio fascista e l’atrocità delle leggi razziali del fascismo contro la comunità ebraica italiana.
Noi abbiamo un decimo sogno: che in Italia prevalgano la logica del progresso e della promozione umana, la logica e la cultura dell’accoglienza e del soccorso, la pratica e la difesa della dignità delle persone, uomini e donne, di ogni colore e provenienza.

mercoledì 11 maggio 2011

Rompere le gabbie cancellare le frontiere





Parma 14 e 15 maggio 2011
Rompere le gabbie cancellare le frontiere
Incontro su immigrazione, lavoro, CIE

L’immigrazione dal sud al nord del pianeta ha allargato e reso più feroce il fronte della guerra ai poveri. L’arrivo di lavoratori stranieri è la leva potente con cui è stato sferrato un attacco senza precedenti ai “diritti” acquisiti dai lavoratori in decenni di lotte durissime.
Chi emigra, sia coloro che fuggono da paesi dove la sopravvivenza è una sorta di roulette russa, sia chi si mette in viaggio nella speranza di migliorare la propria condizione, è costantemente sotto ricatto.
Il disciplinamento dei lavoratori immigrati, indispensabile a mantenerli sottomessi perché ricattabili, si è articolato in una lunga teoria di provvedimenti legislativi e pratiche repressive, che passo dopo passo, hanno posto le basi per un diritto diseguale nel nostro paese come nel resto d’Europa.
Se la disuguaglianza è sancita per legge, se l’accesso alla cittadinanza e finanche a quella sublime astrazione chiamata “diritti umani” diviene carta straccia, l’universalità della norma – sia pure meramente formale - si infrange.
È un viaggio senza ritorno. Un parziale accesso ai diritti è subordinato a condizioni quasi impossibili per i più. Una corsa ad ostacoli piena di trucchi ed inganni.
Le leggi sull’immigrazione sono parte del mosaico normativo che incastra le vite dei lavoratori immigrati e, in prospettiva in rapido avvicinamento, dei lavoratori italiani, spesso incapaci di cogliere il nesso tra leggi contro la clandestinità e riduzione di salari e tutele per tutti.

Le leggi sono lo specchio dei rapporti di forza tra capitale e lavoro, la cui bilancia pende a favore dei padroni. Per invertire questa tendenza servono robuste spallate. Spallate tanto più efficaci quanto più sapremo costruire percorsi di lotta comune tra lavoratori immigrati e italiani.
Si tratta di riannodare i tasselli della questione sociale, mettendo insieme le lotte per il salario con quelle per la casa, la scuola, i servizi. Ma non solo.
Se rompiamo l’isolamento dei lavoratori immigrati e di quelli più sfruttati, gli irregolari, possiamo cominciare a spezzare la rete di oppressione che lega tutta la società. Costruire solidarietà a partire da loro significa rovesciare la piramide dello sfruttamento ed abbattere i muri che altri hanno alzato tra di noi per imprigionarci e meglio sorvegliarci.

In questi anni non sono mancate tuttavia importanti esperienze di lotta comune tra lavoratori immigrati e lavoratori italiani: piccoli ma importanti segnali che occorre amplificare.

L’universalità delle libertà formali è oggi più che mai la maschera grottesca della democrazia reale. Tale non perché tradisca alcunché ma perché si tradisce, mettendosi a nudo, dando forma al cuore nero che la costituisce.

La tutela della proprietà privata, considerata un diritto “umano”, è costitutivamente incompatibile con qualunque ipotesi di eguaglianza sostanziale, l’esistenza stessa di stati, confini, eserciti definisce lo scarto tra norme scelte e norme imposte, tra chi è cittadino e chi non lo è, tra chi va tutelato e chi può essere imprigionato, respinto, cacciato via.

E si erigono muri. Sempre più spessi, sempre più alti. Su questi muri si infrangono le vite di chi fugge la guerra, le persecuzioni, la miseria. C’è chi muore in viaggio, chi in un cantiere senza protezioni, chi si uccide per evitare la deportazione. Una lunga strage di Stato.

Il diritto legale di vivere nel nostro paese è riservato solo a chi ha un contratto di lavoro.
I lavoratori immigrati sono sotto costante ricatto, perché se non si piegano ai padroni rischiano l’espulsione. Oggi i migranti, con permesso o in nero, sono i nuovi schiavi di quest’Europa fatta di confini e filo spinato.

I CIE, Centri di Identificazione ed espulsione, sono le galere che lo Stato italiano riserva a quelli che non servono più. Sono posti dove finisci per quello che sei, non per quello che fai. Come nei lager nazisti. Nei CIE rinchiudono chi ha perso il lavoro e, quindi, anche le carte, oppure chi un lavoro regolare non l’ha mai avuto e quindi nemmeno i documenti.
Chi resta, dopo aver ricevuto un decreto di espulsione, rischia la galera perché – da un anno e mezzo in Italia - l’immigrazione clandestina è un reato penale.
Da sempre nei CIE soprusi, pestaggi, cure negate, sedativi nel cibo sono pane quotidiano. Le lotte degli immigrati rinchiusi nei CIE hanno segnato l’ultimo decennio. Una lunga resistenza, spesso disperata, fatta di braccia tagliate, bocche cucite, lamette o pile ingoiate. Qualcuno ha preferito la morte alla deportazione e l’ha fatta finita. In tanti si sono ribellati, bruciando materassi, distruggendo suppellettili, salendo sul tetto. Un po’ ovunque ci sono stati tentativi di fuga.
Nell’ultimo anno sono andate in fumo camerate, stanze e anche interi CIE: la protesta degli immigrati sta mettendo in seria difficoltà il governo. Il ministro dell’Interno, il leghista Maroni, si è a lungo vantato di aver “fermato l’invasione”. In realtà non ci sono barriere, filo spinato, uomini in armi che possano fermare chi si mette in viaggio per fuggire guerre, miseria, oppressione. O, più semplicemente per vivere una vita diversa.

Il governo vuole costruire nuovi CIE ma non ha nemmeno i soldi per ristrutturare quelli danneggiati durante le rivolte che hanno segnato gli ultimi due anni.
La crisi in nordafrica ha messo in seria difficoltà la premiata ditta “gabbie e deportazioni”, gestita dal ministro dell’Interno Maroni. Tra tendopoli, accordi sempre in bilico con il governo tunisino, permessi temporanei, frontiere chiuse, il governo è apparso sempre più in affanno. Ha reagito con stupidità e ferocia, spostando a casaccio esseri umani, che saprebbero bene dove andare a costruire la propria vita.

In questi anni tuttavia le reti di solidarietà con gli immigrati si sono infittite.
Siamo convinti che oggi ci siano le condizioni per mettere in crisi il sistema delle deportazioni: dai respingimenti in mare e alle frontiere, al sostegno di chi lotta nei CIE, all’apertura di crepe nel consenso verso le leggi razziste.
Nell’ultimo anno si sono moltiplicate ed estese le lotte dei lavoratori immigrati contro la sanatoria truffa, il permesso a punti, il contratto di soggiorno, la schiavitù del lavoro nero, i soprusi della polizia. Gli immigrati sono sempre più consapevoli della necessità di spezzare l’apparato legislativo che li ingabbia, che impedisce la saldatura tra le lotte.
Il governo ha risposto con botte, denunce, deportazioni. Senza cedere di un centimetro, nonostante gli obiettivi modestissimi delle lotte. Governo e padroni hanno paura: sanno che se il lavoro migrante riesce a liberarsi dalle pastoie in cui è stato stretto, tutta la società potrebbe rialzare la testa.Siamo convinti che il mostruoso apparato repressivo che tiene sotto scacco la vita degli immigrati non basterà a fermare le lotte. Anzi. La crisi che pure morde la vita di tutti ha colpito in modo durissimo gli immigrati.
Siamo convinti che le lotte comuni tra lavoratori immigrati e lavoratori italiani possano dare dei bei grattacapi a chi lucra sulle vite di tutti, scommettendo sulla guerra tra poveri.

A Parma il 14 e 15 maggio vogliamo ripercorrere la rotta degli schiavi, il loro cammino attraverso il deserto, i mercanti d’uomini, il lavoro nero, i caporali, i CIE, la deportazione.
Vogliamo altresì mettere a confronto esperienze, idee e proposte di chi, giorno dopo giorno, lotta contro il razzismo di stato e la guerra ai poveri.
Nell’auspicio che si possano tessere reti sempre più solide.



Programma:
Sabato 14 aprile
12,30 aperipranzo
13,30/14 presentazione a cura di Federico Denitto
14,30
I nuovi schiavi. Lavoro migrante tra ricatti, violenze e lotte - Marco Rovelli
Tra trucchi e inganni, la corsa ad ostacoli per ottenere le “carte”. A proposito di flussi, sanatoria truffa, permesso a punti - Simone Ruini e Katia Torri
Il diritto ineguale. Clandestinità, CIE, profughi, rimpatri - Eugenio Losco e Mauro Straini
I sommersi ed i salvati nel grande gioco dei potenti - Stefano Capello
La lotta alla GFE. Voci da una lotta esemplare

Domenica 15 aprile
9,30
Rompere le gabbie cancellare le frontiere. Tavola rotonda sulle prigioni per immigrati: da Torino a Gradisca, da Milano alla Sicilia, dalla Sardegna alla Gran Bretagna. Interventi di Maria Matteo, Alberto La Via, Raffaele Viezzi, Claudio Alberto, Claudia Lauvergnac, Antonio D’Errico.
pausa pranzo
alle 14
Assemblea antirazzista. Idee, proposte, iniziative.






Il coordinamento antirazzista della Federazione Anarchica Italiana - FAI

contatti:
fai-antiracism@libero.it
faiantirazzisti@autistici.org

Info:
L’incontro si terrà presso il Circolo arci Matonge, via Burla 130.
Autobus numero 7, direzione carcere...
Valentina: 333 8277726
Christian: 349 5784324

martedì 10 maggio 2011

Pomezia, manifesto con il Duce per il candidato della lista vicina alla Polverini

fonte
http://roma.corriere.it/roma/notizie/politica/11_maggio_4/pomezia-duce-testimonial-candidato-polverini-190566707432.shtml


Gianluca Caprasecca sceglie Mussolini: «Lui ha fondato Pomezia, a noi il compito di farla crescere»


POMEZIA - Un testimonial piuttosto sui generis: Benito Mussolini, divisa e berretto delle forze armate, sguardo deciso. La foto campeggia dappertutto tra Pomezia e Torvaianica - dove si voterà per il rinnovo del consiglio comunale - e a sceglierla come proprio manifesto elettorale è stato Gianluca Caprasecca, della Lista «Città Nuove», quella promossa dalla presidente della Regione Renata Polverini che, almeno al primo turno, come in altri municipi del Lazio corre da sola, in aperta concorrenza al Pdl.
«RISPETTO E ONORE» - Nel manifesto appare anche uno slogan, quello di «Rispetto e Onore». E ancora: «Lui ha fondato Pomezia, a noi il compito di farla crescere», precisa meglio il candidato Caprasecca che nella vita si occupa di marketing. Ma che ora non sembra aver troppa voglia di chiarire come gli sia venuto in mente di usare Mussolini come uomo-immagine della campagna elettorale. Alla sua utenza cellulare - indicata proprio nel sito dell’azienda con cui collabora - risponde una donna: «Avete sbagliato numero, qui non c’è nessun Caprasecca». Poi interviene una voce maschile, con tono comunque gentile, che sembra cadere dalle nuvole: « Davvero cercate qualcuno a Pomezia? Ma qui è Taranto».
LA POLVERINI: RITIREREMO IL MANIFESTO – La lista in cui è candidato Caprasecca, Città nuove, fa riferimento alla fondazione che Renata Polverini ha presentato nello scorso febbraio con l'intento di ramificare il suo movimento politico nel territorio laziale: in diversi comuni, come Sora, il prossimo 15 e 16 maggio gli elettori troveranno liste con il logo "Città nuove" e lo slogan "Con te". A Pomezia la presidente del Lazio si è recata per sostenere la candidatura della capolista Maricetta Tirritto. Sui suoi manifesti lo slogan recita: «Finalmente! Un sindaco Donna». Ma n ogni caso l’idea di Caprasecca di usare il Duce come testimonial non è affatto piaciuta alla governatrice. «Spero che non sia vero e comunque stiamo verificando» ha detto la Polverini. Che poi ha aggiunto: «Prenderemo i provvedimenti che dobbiamo prendere e faremo ritirare immediatamente questo materiale».
Alessandro Fulloni
04 maggio 2011



Il logo della fondazione «Città Nuove»
Il logo della fondazione «Città Nuove»

Festa antifascista 20 ottobre 2018 via Testi 2 ore 18.30

Non è solo una grande festa antifascista, è una chiamata a tutte le forze antifasciste, quelle che si unirono attorno al più alto significa...